Il testo qui sotto è tratto da un'edizione del 1954 de "Le Donne della Rivoluzione" di Jules Michelet. Purtroppo il libro non è in mio possesso per cui non so darvi note dettagliate sul volume. Non detengo nessun copyright di contenuto, né di testo.

LA PRESA DELLA BASTIGLIA

 

L’idea d’impadronirsi della Bastiglia, che era già stata forse ventilata in precedenza, fu la prima che il popolo accolse; e il grido: «Alla Bastiglia! Alla Bastiglia!» echeggiò in breve per tutta la città con rabbia crescente.

Il marchese de Launay

Comandante della Bastiglia era Bernardo Renato Jourdan de Launay, un marchese nato a Parigi nel 1740. Fin dalla vigilia, sapendo che la fortezza era in pericolo, egli aveva preso tutte le precauzioni necessarie per difendersi, ma non disponeva però di grandi mezzi: pochi cannoni pressoché inservibili sulle torri, e altri deposti fra i ferravecchi dell’arsenale. Alla meglio li caricò a mitraglia, e come difesa, forse più efficace, raccolse e fece ammassare, dai suoi trentadue svizzeri, sulle torri tutti i sassi dei cortili; poi appostò ai merli dei torrioni gli ottantadue Invalidi della sua guarnigione. In complesso cento difensori, non molto temibili, contro una folla immensa ed esasperata, sospinta da bande di forsennati, decisi a tutto, venuti dal di fuori.
Le prime avvisaglie si ebbero verso la mezzanotte, quando furono tirati sette colpi di fucile contro le sentinelle delle torri; soltanto al mattino si avanzò minacciosa la moltitudine armata e, giunta sotto le mura, tumultuò, innalzando altissimi clamori.
Sono le dieci del mattino: una deputazione della Municipalità di Parigi ottiene di entrare nella fortezza e prega il

governatore di non far fuoco sulla folla. Il De Launay acconsente: non gli è giunto alcun ordine di far uso delle armi; la sua gentilezza, in quel frangente, giunge persino ad invitare e a trattenere a colazione gli invitati.
Ma ecco che, dopo che i pacifici delegati della città sono usciti dalla fortezza, vi entra un uomo accigliato, deciso, il deputato Thuriot; malgrado il divieto del comandante, egli penetra fino al terzo cortile e arringa le poche milizie che quivi stanno schierate.
De Launay, forse presago della sorte che l’aspetta, e certamente consapevole dell’odio da cui è circondato, lascia fare a Thuriot; gli consente anche, per la preghiera dei suoi ufficiali, di salire sulle torri: l’accompagna egli stesso. Quale spettacolo osserva da quell’altezza!
Le vie, le piazze, intorno alla fortezza, rigurgitano di folla armata, e già, dalla parte del sobborgo Saint Antoine, sopraggiunge altra gente e un rumore come di tempesta sale turbinoso e travolgente. Il governatore ne è spaventato: si crede vittima di un’insidia e, rendendo pel braccio Thuriot, esclama: «Che avete fatto? Mi avete tradito!» Entrambi si trovano sull’orlo della piattaforma: sotto di loro è il fossato; intorno, pronta al minimo cenno, la guarnigione del governatore. Ma Thuriot non trema; è uomo risoluto e coraggioso. Intravvede la situazione, comprende che occorre assumere un atteggiamento audace, quasi di sfida disperata.
Si volge a De Launay, guarda per un istante le sentinelle, la folla in basso che rumoreggia; misura con l’occhio il precipizio che gli sta sotto i piedi e, rivolto al governatore, avverte: «Signore, non una parola di più, o vi giuro che uno di noi precipiterà nel fossato».
Il popolo freme: i più audaci stanno per muovere all’attacco. Allora Thuriot, accondiscendendo al desiderio di De Launay, si mostra per un istante alla folla sporgendo il capo da una balestriera.

Rappresentazione della Presa della Bastiglia.
Stampa di Monnell


Succede una breve calma: Thuriot, dopo aver un’ultima volta arringato la guarnigione, esce dalla Bastiglia per recarsi al Palazzo di Città a riferire sulla sua visita. La folla, quando lo vede allontanarsi, sospetta ch’egli abbia tradito la sua causa, e non ottenuta la resa: si impreca contro di lui, si fischia, lo si minaccia. Sono le undici del mattino: mezz’ora più tardi arriva nuova gente armata, gridando: «Vogliamo la Bastiglia!».
Due uomini salgono coraggiosamente sul tetto del corpo di guardia e, a colpi d’ascia, spezzano le catene del ponte levatoio. Attraverso quel passaggio la folla si accalca, avanza verso un secondo ponte. È accolta da una scarica di moschetteria: arretra, risponde con qualche colpo d’arma da fuoco.
Giungono, inviate dal governo provvisorio, instaurato al Palazzo di Città, due deputazioni. I colpi uditi laggiù han messo in apprensione gli elettori, che mandano a chiedere al Governatore di lasciar entrare un distaccamento di quella milizia volontaria, costituitasi a difesa dell’ordine, e che raccoglie, in parecchi battaglioni, più di quarantacinquemila cittadini.
L’arrivo delle deputazioni, annunziato dal rullo di un tamburo e dall’agitar di un vessillo, ha l’effetto d’ottenere un istante di tregua. Ma, nella confusione, i commissari non riescono a giunger fino alla guarnigione: la folla, ancora più esasperata per qualche colpo di fucile, forse tirato dagli Svizzeri, si precipita all’assalto; a spalleggiarla ecco arrivare, a buon punto, la Guardia Francese ed una colonna di borghesi e d’operai. Trascinano cinque cannoni. I comandanti della città hanno dovuto concederli. Diretti da Elie, un ufficiale di ventura del reggimento della Regina, e da Hullin, un colosso ginevrino, cacciatore del marchese di Conflans, gli insorti marciano così, in completo assetto di guerra, per dare un assalto in tutta regola.
 

De Launay viene fermato mentre vuol far saltare la fortezza

De Launary si vede perduto: ormai anche l’aiuto che Besenval gli ha promesso, con un biglietto, non potrà giungere che troppo tardi. Occorre resistere,

 

 soprattutto bisogna difendersi; l’onor militare, non dev’esser abbandonato alla mercé d’una folla ubriaca. Vi sono centotrentacinque barili di polvere alla Bastiglia.

Gli svizzeri, per ordine del governatore, fanno fuoco sui primi assalitori.


De Launay, in preda alla disperazione, afferra la miccia..; i suoi soldati lo trattengono, lo costringono alla resa. Egli è stordito, annientato: d’ora innanzi, senza volontà e senza speranza di salvezza, sarà abbandonato, come un cencio, alla sua tragica sorte..

La resa è trattata e convenuta dal capitano degli Svizzeri: si chiedono salve le vite, e Elie ed Hullin lo promettono. Si abbassa il ponte, entrano gli assalitori; ma la folla incalza: essa non ha nulla promesso. Il suo odio è accumulato da secoli; a stento le Guardie Francesi riescono a salvar, dal furore popolare gli Invalidi fatti prigionieri; una giovane, scambiata per la figlia del governatore, sta per essere uccisa: anch’essa è posta in salvo dai militi di Elie.
Ma la folla non s’arresta; in breve invade tutto l’interno della fortezza, cerca le vittime nelle prigioni e le libera. Due dei carcerieri erano già pazzi; uno, impaurito da tutto quel frastuono, cerca di difendersi dai nemici, e resta instupidito quando gli invasori, penetrati nella sua cella, lo prendono fra le braccia, baciandolo e inondandogli il viso di lacrime. L’altro, cui la barba bianca scende incolta sino alla cintola, ha perduto la nozione del tempo: chiede notizie della salute di Luigi XV. In una bella carrozza prestata dal birraio Santerre, si conduce per i sobborghi di Parigi questo spettro esumato dal fondo della Bastiglia. Un sarto teatrale lo ha rivestito di una lunga tunica grigia, chiusa ai fianchi da una cintura; due Guardie Francesi sostengono il vecchio che sembra insensibile alla luce e ai clamori immensi; la sua testa livida, scossa dai trabalzi, si posa sulle spalle delle guardie, e il vento agita la barba come quella di un profeta dell’Apocalisse. Gli si chiede il nome. Risponde che si chiama «Più grande dell’immensità». Ha perduto la ragione.

 

La proposta della resa ricevuta dall'usciere Maillard, attraverso la porta della Bastiglia

Costui era Francesco Saverio de Malleville, e l’altro suo compagno di prigione, era un certo Tavernin, dal 1746, e cioè per quarantadue anni, passato di prigione in prigione; anch’egli, al momento della liberazioni, rimbambito per pazzia senile.
In seguito, i documenti rivelarono che costoro non erano stati, nella loro gioventù, stinchi di santo, perché condannati anche per reati comuni: ma un’aureola di pietà circondava queste tragiche vecchiaie.
Anche la vista di quelle celle umide e oscure, di quegli anditi cupi, di quelle solide inferriate, commuove e esaspera maggiormente la folla; l’odio accumulato contro la prigione, attraverso tanti patimenti, rafforzato da sinistre leggende e da paurose rivelazioni, si manifesta con una irrompente e acre voluttà di distruzione. Tutto quanto si può trovare viene infranto, rovinato, asportato. Gli scaffali colmi di incartamenti polverosi, che nascondono documenti rivelatori dell’arbitrio e del dispotismo, sono sfasciati, dispersi; la mano degli insorti fruga fra quelle carte che contengono i chirografi di lunghe, misteriose, deprecate ingiustizie.
La folla s’accontenta di distruggere; fa poche vittime: le basta essere penetrata nella fosca Bastiglia, d’aver distrutto, per un breve fatto portentoso, l’incubo di quelle mura tanto temute ed odiate.

 

Frattanto a Versailles, l’Assemblea, adunata fin dal giorno precedente, continuava a discutere sulla costituzione. Il rumore degli avvenimento di Parigi giunse rapidamente anche là: Versailles distava poche ore dalla città, ed i membri dell’assemblea sentivano, fremendo, il rombo del cannone che si ripercuoteva come un fiero ululato, quasi voce d’un mostro lontano annunciante sventura. Eppure soltanto verso sera l’Assemblea sospese i suoi lavori.
S’erano sparse anche fra i suoi membri le notizie che avevan provocato il fermento a Parigi; le truppe concentrate a Versailles erano lì, davanti all’Assemblea, colmate di doni, incoraggiate dai sorrisi della regina e pronte ad accerchiare i rappresentanti della Nazione, e farli prigionieri. Si diceva che il re sarebbe partito nella notte; si sapeva che l’attacco a Parigi era stato deciso per la notte dal 14 al 15, e che le truppe, specialmente quelle straniere, erano pronte, ben preparate per invader la città; s’era anche vito passare al galoppo il reggimento del principe Lambesc, che batteva in ritirata. L’Assemblea sembrava disorientata, stordita, ed i suoi terrori si accrescevano sempre più, paralizzandone quasi ogni attività.
Vennero due membri dell’Assemblea da Parigi: quello che raccontarono, i tumulti, le stragi, il sangue versato, un cadavere decapitato, che uno di essi assicurava di aver proprio visto coi suoi occhi, era tale un quadro da far rizzare i capelli a chi ascoltava. A tarda sera due elettori giunsero coll’annuncio della presa della Bastiglia. Si attendeva una deputazione inviata al re, e intanto se ne mandò un’altra. Finalmente, al loro ritorno, alle due della notte, si annunciò a Parigi che l’Assemblea faceva pressioni sul re per ottenere l’allontanamento delle truppe straniere e che, nel frattempo, la seduta sarebbe stata sospesa.
Troppo poco e troppo tardi. Alla sera, quando si seppero i particolari degli avvenimenti del giorno prima, si comprese che il popolo aveva voluto far da sé, stanco di attendere la fine di inutili discussioni e l’esito lento di interventi legislativi e burocratici.
 

L'assalto alle mura della fortezza.
Stampa del Bourdon

La presa della Bastiglia non era stata che un episodio della giornata del 14 luglio: a Parigi, mentre la fortezza veniva assalita ed espugnata, s’erano svolti altri fatti tragici, ed altri ancora si deplorarono all’arrivo delle prime colonne dei vincitori, frenetici del loro trionfo. I quartieri, insorti alle notizie dell’occupazione militare, avevano preparato la difesa; le strade erano messe sossopra, e accatastati i sassi dell’acciottolato che dovevano servire come proiettili. Attorno al Palazzo di Città premeva la folla. Il Preposto dei mercanti, Flosselles, al quale era normalmente affidata l’amministrazione della città, era preso di mira perché sospetto di temporeggiamenti a danno del popolo, e di connivenza coi nemici della libertà. Durante la giornata, parecchie volte era stato sottratto al furor della folla e degli elettori, che lo cercavano a morte, per il pronto e coraggioso intervento dell’abate Fauchet.
Alle cinque e mezzo del pomeriggio, quando più torbida era la sommossa, d’un tratto un urlo sale dalla piazza di Grève, e una folla si precipita nel palazzo gridando la vittoria. «La Bastiglia è presa!»
Nella sala di San Giovanni, dove Flesselles e gli elettori si sono rifugiati, entra, con grida furibonde, uno strano, immenso corteo. Sono mille uomini che riempiono la vasta sala, e dietro loro altri diecimila si accalcano. In alto, sopra quella marea umana ondeggiante, issati su picche, campeggiano, come stendardi sinistri, i mostruosi trofei della giornata: le chiavi ed il regolamento della Bastiglia; una mano insanguinata mostra al ludibrio della folla la testa recisa di De Launay.
Hullin aveva difeso il governatore strenuamente, fino all’ultimo, nel tragitto fra la Bastiglia e la piazza di Grève; poi, sopraffatto dalla folla, che premeva e colpiva, era stato respinto: ad un tratto aveva visto agitare in alto la testa recisa dello sventurato.
L’arrivo dei vincitori fece dimenticare per un istante Flesselles; il popolo non era ancor sazio di sangue; altro ne voleva. Non si potevano, benché a più riprese lo si fosse tentato, massacrare gli Invalidi, gli amici del popolo: a vittima fu scelto Flesselles. Lo si costrinse ad avviarsi al Palais Royal per esservi giudicato, e lungo la strada, prima ancora che egli giungesse alla Senna, un giovane gli affrettò il supplizio abbattendolo con un colpo di pistola..

All’ebbrezza della vittoria seguì un periodo in cui il popolo ebbe come paura della propria vittoria, quasi sentisse il peso immane della responsabilità, e fosse esausto per lo sforzo compiuto: gli Invalidi furono lasciati liberi, gli Svizzeri incorporati nelle Guardie Francesi. I vinti incutevano ancora rispetto!
La notizia degli avvenimenti del giorno 14 giunse alla Corte il giorno dopo. Il re, non impressionato dalle notizie contraddittorie che aveva ricevute, s’era coricato un po’ più presto del solito. Luigi XVI aveva veduto la ritirata precipitosa del principe di Lambesc, aveva saputo dal signor di Noailles la tragica notizia della presa della Bastiglia, e dal signor di Wimpfen l’uccisione del governatore. Aveva anche ricevuto le due deputazioni dell’Assemblea, e risposto loro evasivamente; forse tranquillizzato da Bertier, che sperando nella piena riuscita del piano d’occupazione militare, non aveva a nulla provveduto.
Il duca di Liancourt andò a svegliarlo, e lo fece avvertito dalla pericolosa situazione. La mente dell’uomo, pingue e in fondo buono, che reggeva i destini d’una dinastia e d’un governo, ebbe finalmente un breve lampo, che gettò nelle tenebre della sua mente un guizzo di luce. Al racconto del duca di Liancourt, Luigi XVI fece un gesto di sorpresa più che uno spavento.
«È una rivolta, dunque?» esclamò.
«Sire», rispose tristemente il duca, «dite una rivoluzione».
Era veramente una rivoluzione; la più grandiosa che la storia ricordi!