Si
hanno notizie particolareggiate sulla prigionia di Maria Antonietta alla
Conciergerie. Così il Lamartine descrive questo carcere: «Erano le fondamenta e
le muraglie del Palazzo di Giustizia che costituivano la prigione. Questo
edificio presentava un complesso vario di corridoi, di anticamere, di androni,
di posti di guardia, delle camere basse, alle quali si accedeva scendendo
qualche scalino. Le corti anguste, inquadrate da massicce facciate, erano rese
più oscure dal dominare superbo del palazzo, che gettava sugli edifici minori le
sue ombre; l’argine che separava queste prigioni dalla Senna non impediva
l’infiltrarsi delle acque, in modo che le pareti delle celle e i pavimenti erano
impregnati sempre di salnitro e d’umidità. Chi si trovava rinchiuso nella
prigione udiva attenuati e sordi i rumori dell’esterno: il rullio continuo della
corrente della Senna che batteva contro le testate dei ponti, il rotolare dei
carri e delle vetture sulla strada, lo scalpiccio della folla che nelle ore di
udienza ingombrava le aule superiori del palazzo, facendo al basso risuonare le
volte. Tutti questi strepiti vari e indefiniti si sentivano come un’eco lontana
e un brontolio di tuono, e davano all’ambiente interno una tristezza e un
isolamento più cupi. I pilastri, le volte ad ogiva, le sculture bizzarre, di cui
gli scalpelli gotici avevano decorato i cordoni e i capitelli, richiamavano alla
mente l’antica designazione del fabbricato, già magione dei re delle prime
dinastie, tramutata in carcere e in stazione per chi doveva avviarsi alla morte.
Tutte queste strutture gigantesche formavano le basi dell’alta torre medievale
che, per il passato, si elevava nel centro, riassumendo, con l’aspetto guerriero
di fortezza, il suo predominio assoluto su tutti i feudi; e quel luogo nel quale
erano passate tanta storia e tante violenze, e che poteva dirsi emblema e rocca
del feudalismo, per un beffardo destino venne adibito a carcere di una sovrana.
Chi avrebbe detto ai re antichi che il temuto loro fiero palazzo doveva divenire
un giorno prigione e tomba ai loro successori? Il tempo compie le grandi
espiazioni sui fatti e i delitti degli uomini; ma purtroppo le sue vendette sono
talvolta cieche, e con le lagrime e col sangue di una donna, vittima della
regalità, vuole punire i torti e le oppressione di una discendenza di venti re!»
«Dopo di essere discesi – prosegue lo storico
– i gradini di una vasta scala, si entra in un chiostro che apre le sue arcate
su un cortile dove passeggiano i prigionieri: a destra, in un corridoio, vi è
una sfilata di porte rozze e pesanti rafforzate da intelaiature di ferro e
assicurate da grossi catenacci. La seconda di queste porte immette in una
piccola camera sotterranea, della quale il suolo è più basso tre gradini che
all’esterno e che vien rischiarata da una finestra munita da inferriata a cui dà
luce una corte stretta e profonda come una cisterna. Presso questa prima cella
eccone una seconda, più cupa, più umida, più triste, nella quale la luce filtra
scarsissima, cosicché anche in pieno giorno ci sono le ombre del crepuscolo.
Pochi e poverissimi mobili: un misero giaciglio, quasi nudo pagliericcio, senza
cortine, con delle coperte di rozza lana, di quelle che passano ordinariamente
gli ospedali agli ammalati e le caserme ai soldati; da un lato un piccolo tavolo
di larice, una cassetta di legno, due sedie impagliate, costituiscono tutto
l’arredamento.
Fu in questo ambiente tetro, in questo camerotto, alla luce di una candela di
sego che, nella notte, si gettò la regina di Francia, discesa di sventura in
sventura dai dorati appartamenti di Versailles e dalle magnifiche eleganze di
Trianon alle miserie squallide della sua ultima prigionia. Due guardiani con la
sciabola nuda in pugno furono collocati di guardia nella prima camera, e
dovevano tener sempre d’occhio Maria Antonietta anche quand’essa coricata
dormiva, potendola osservare dalla porta intercomunicante che rimaneva sempre
aperta».
«Gli uomini più implacabili – scrive Lamartine – non trovano sempre fra coloro
che li servono gli stessi animi che, respingendo ogni senso di compassione,
siano pronti a seguirne ciecamente gli ordini rigidi e crudeli. Anche nelle
prigioni la solidarietà umana penetra porgendo celatamente conforti e sollievi
alla grandi sventure; un gesto rispettoso, uno sguardo di compatimento e
d’intesa, una parola benigna, dicono alla vittima ch’essa non è del tutto
abbandonata e posta al bando dall’umanità; e queste misericordiose solidarietà
nel dolore sono sempre veramente commoventi e sublimi.
Fin dalle prime ore nel suo nuovo carcere
alla Conciergerie, Maria Antonietta scorse nel contegno e negli occhi della
moglie del carceriere capo, la Richard, una benevolenza e un rispetto al di
sopra dell’inflessibilità dei regolamenti carcerari e del timore di terribili
responsabilità. La brava donna, ricordando il passato della sua augusta
prigioniera, la trattò con tutti i riguardi, le premure, le delicate attenzioni
che la sua consegna poteva permetterle; volle che nell’oscuro camerotto le fosse
portato qualche mobile e alcuni oggetti di prima necessità, e fece ricercare al
Tempio i ricami iniziati dalla regina e gli utensili perché agucchiando potesse
passare il tempo con minor noia, svagando i tristi pensieri.
Con le sue mani le preparava i cibi, e con pretesti la visitava di frequente per
raccomandare ai gendarmi un buon contegno, per informarsi se desiderava qualche
cosa, per porgerle parole di conforto, per distrarla dalla solitudine del giorno
e dalle penose insonnie della notte.
Spesso le recava notizie di sua cognata, di sua figlia, del Delfino, per
corrispondenze segrete che manteneva con la prigione del Tempio; e per mezzo di
persone molto fide e della complicità di qualche commissario del Comune,
riferiva ad Elisabetta e alla principessina quanto riguardava Maria Antonietta.
Il carceriere Richard, sebbene più rude in apparenza per meglio nascondere la
sua complicità, condivideva pienamente i nobili sentimenti della moglie».
I documenti ricercati dagli scrittori, più che la narrazione dei cronisti,
descrivono la vita della regina alla Conciergerie minutamente, seguendo, si può
dire, la giornata della prigioniera dall’alba al tramonto, elencando persino i
cibi da lei preferiti e i suoi libri di lettura.
Si alzava prestissimo e faceva la prima colazione con un caffè o cioccolata; il
pranzo consisteva in una zuppa, bollito, un piatto di legumi e di arrosto, quasi
sempre l’anatra, ch’essa preferiva, e di qualche frutto; e così pure alla sera
per la cena. Non beveva vino, ma acqua di Ville d’Avray, che era la sua bevanda
solita al Trianon.
Di questo trattamento non moveva lamento, e spesso anzi ebbe ad esprimere alla
Richard la sua soddisfazione, dicendole: «Tutto ciò che mi date da mangiare,
preparandolo con le vostre mani, è eccellente.»
Anche in quella prigione aveva cura della toletta, e il suo guardaroba non era
sprovvisto: risulta infatti dagli incartamenti di archivio ch’essa ancora
possedeva quindici camicie di tela fina, orlate di pizzo, un mantello di raso,
due vestaglie, cinque corpetti, ventidue fazzoletti di batista, eccetera.
Passava il tempo ricamando o leggendo, e fra i libri chiesti vi è un’opera sulla
«Rivoluzione in Inghilterra» e «Il viaggio del giovane Anacarsi in Grecia»,
dell’abate Barthélemy, lavoro, com’è noto, piuttosto pesante, vero monumento di
erudizione, e pregiatissimo anche allora per lo stile, ma che non si direbbe
adatto per il passatempo di una dama in carcere.
Quel che più le rincresceva era la perenne vigilanza dei gendarmi che la
dovevano tener sott’occhio: per le era un’oppressione indicibile che non
riusciva assolutamente a sopportare; più volte se ne lamentava con i commissari,
facendo presente come ciò costituiva un’offesa gravissima al decoro e al pudore
di qualunque donna, tanto più ch’essa non lasciava mai il suo camerotto, né mai
passeggiava nei corridoi.
Eppure anche in questa prigione, e certamente
valendosi di numerose complicità, si rinnovavano alcuni tentativi per una ben
difficile evasione, narrati e confermati da alcuni storici.
Scrive il Blanc:
«Una persona che aveva tutta la confidenza della regina e che la principessa
Elisabetta, scrivendo segretamente alla signora Raigcourt, qualificava “vecchia
volpe”, il conte Mercy Argenteau, era allora a Bruxelles. Costui, fedelissimo
alla causa regia, allarmato dal trasporto della regina alla Conciergerie, inviò
un emissario a Parigi perché cercasse di avvicinare Danton, promettendo una
forte somma se il tribuno consentisse ad adoperare la sua autorità in favore
dell’augusta prigioniera; e si assicura che Danton lo promettesse, senza però
accettare il pagamento della sua protezione. «Ma, commenta ancora lo storico: se
questo è veramente avvenuto, il famoso rivoluzionario doveva avere una ben
strana illusione della sua popolarità, perché i tempi mutati avevano ormai dato
alle opinioni un tale crollo che egli aveva bisogno piuttosto di sostenere la
sua posizione già scossa, la sua autorità minata, che correre in soccorso
all’illustre prigioniera».
Fu in questo frattempo che un altro gentiluomo, cavaliere della croce di San
Luigi, certo Rougeville, intraprese un progetto animoso per salvare Maria
Antonietta; egli si mise in relazione e guadagnò al suo piano la moglie di un
commissario municipale, riuscendo ad introdursi nella prigione e a porgere a lei
un garofano, nell’interno del quale aveva riposto uno scritto con questa frase:
«Ho per voi uomini e denaro».
La regina, avvertita da un cenno espressivo, si ritirò in un angolo del
camerotto, aprì il fiore, lesse lo scritto. Si accingeva già a tracciare la
risposta con la punta di uno spillo, quando un gendarme di guardia sopravvenne
all’improvviso, la sorprese nei suoi maneggi e denunciò il fatto. La Richard,
moglie del carceriere, venne subito arrestata insieme a sua figlia Maria Teresa,
e chiuse in una segreta alle Madelonnettes, da dove però, dopo qualche giorno,
furono fatte uscire. Rougeville era riuscito a fuggire; ma il carceriere
Richard, contro il quale del resto non si avevano che vaghi sospetti, fu
destituito, e al suo posto nominato il Bault, un realista creduto giacobino, il
quale aveva sollecitato l’impiego non con l’intenzione di custodire la
prigioniera, ma di esserle d’aiuto.
Ciò prova che, quantunque rigorosa, la sorveglianza non era tanto stretta da
rendere impossibili le relazioni con l’esterno; ed è curioso il fatto che quando
Maria Antonietta vide per la prima volta il nuovo carceriere, non poté
trattenersi dall’esclamare: «Ah! Siete voi signor Bault? Sono ben contenta che
siate qui!»; frase stranissima perché nel racconto della moglie del Bault, che
fa seguito al «Journal» del domestico del re, Cléry, si dice che lo stesso nuovo
carceriere rimase colpito e meravigliato di questa dichiarazione della regina
ch’egli non aveva prima mai vista, non comprendendo come essa fosse già al
corrente della cosa con avvisi pronti e segreti: segno di una vasta rete di
connivenze anche nel carcere.
«La presenza di Bault – continua il Blanc – rese ancora meno aspra la prigionia.
Il benigno carceriere continuò le sollecitudini per provvedere una buona mensa,
si studiò di appagare, nel limite del possibile, i desideri dell’augusta
signora, e le facilitò il modo di avere frutta fresca portata da volenterose
donne del mercato. È strano anche il fatto che a questo nuovo carceriere la
prigioniera si affidava per farsi pettinare, cosicché il Bault, tramutato in
parrucchiere, ogni mattina attendeva a questo lavoro; tanto rispettoso, pronto e
abile, che la regina gli diceva, facendo allusione al nome: «Vi vorrei chiamare
“il buono”, perché voi lo siete veramente; e ciò vale di più che l’esser bello».
Fra le persone che di nascosto poterono
entrare nella prigione della regina, vi fu l’abate Magnin, un prete non giurato,
quindi posto fuori dalla legge e obbligato, per sottrarsi all’arresto, a
nascondersi e travestirsi, dicendo pur sempre la messa, amministrando i
sacramenti, visitando i malati. Il pericolo sembrava avesse moltiplicato lo zelo
imperterrito di questo sacerdote che percorreva le vie di Parigi, entrava nelle
case fingendosi un venditore di biancheria, e perciò portava sempre un cesto al
braccio nel quale, sotto la finta merce, vi erano gli arredi liturgici per i
sacramenti.
Come questo ecclesiastico sia riuscito a giungere sino alla cella della
prigioniera non è ben chiaro; si disse che per ottenere lo scopo molto si
adoperassero certe signorine Fouché, due zitelle religiosissime, che erano in
relazione con la Richard. Si disse ancora che Don Magnin abbia potuto persino
celebrare la messa nel camerotto, su di un altare improvvisato, confessando e
comunicando l’augusta devota, e che la carceriera abbia spinto le sue
prestazioni sino a fornire due candelieri per l’altare. Questi particolari sono
inverosimili; ad ogni modo però il fatto, nella sua essenza, non si può negare.
L’abate, molto probabilmente penetrò fino alla regina vestito da guardia
nazionale, portando sotto la sua giubba la sacra particola, ed eseguendo poi il
rito alla spiccia come richiedevano le circostanze eccezionali e i pericoli
gravissimi.
Il fatto venne, in certo modo, confermato dalla protezione e dalla benevolenza
riconoscente con cui la figlia della regina, divenuta duchessa d’Angoulême,
accompagnò sempre questo sacerdote. Dopo la Restaurazione volle che parroco
della Tuileries fosse colui che aveva portato a sua madre le ultime consolazioni
della fede; perciò lo fece nominare arciprete della parrocchia di Saint Germain
l’Auxerrois dalla quale il palazzo reale dipendeva.
«Nell’attesa del processo la regina usava fermare i suoi pensieri, valendosi di
uno spillo, sui muri della prigione. Uno dei commissari, dopo una sua ispezione,
riferisce che le frasi così scritte erano versi di poeti tedeschi o italiani,
brevi allusioni alla sua sorte, brani di Salmi e del Vangelo; la parete opposta
alla finestra ne era coperta. Quel commissario volle copiare alcuni di questi
motti; ma un suo collega vi si oppose e diede ordine che uno strato di calce
cancellasse subito quei gemiti di una regina».
Lo scrittore racconta ancora questi episodi: «La prigioniera desiderava per il
suo letto una coperta di cotone più leggera di quella pesante e rozza che
l’opprimeva durante il sonno; e la moglie di Bault si recò di trasmettere questa
domanda al procuratore generale del Comune. «Che cosa osi chiedere? – le gridò
Hébert – Meriteresti di essere mandata alla ghigliottina».
«La donna uscì allibita.
«La presenza dei gendarmi inceppava e impediva al Bault ogni manifestazione di
aiuto benevolente. Una volta la regina cercò di consegnargli di soppiatto una
ciocca dei suoi capelli e un paio di guanti: questi oggetti vennero sequestrati,
portati a Fouquier Tinville e da costui dati poi a Robespierre.
«Essa cercava di far giungere ai suoi
figliuoli, agli amici, qualche suo piccolo regalo, perché si ricordassero di lei
sino alla morte: strappò i fili di lana di un vecchio tappeto, posto a fianco
del letto, e con esso mise assieme una giarrettiera, che lasciò cadere ai suoi
piedi un giorno, in presenza di Bault. Premuroso costui la raccolse, fingendo
che fosse il suo fazzoletto per eludere la vigilanza dei gendarmi: questo lavoro
femminile della regina fu consegnato, dopo la sua morte, a Madame Reale.
Gli ultimi giorni di carcere ebbero qualche attenuazione nella vigilanza; i
gendarmi furono ritirati, dietro richiesta dello stesso carceriere capo, col
pretesto di meglio garantire la sua grande responsabilità, e collocati ai lati
della porta. Qualche distrazione veniva a Maria Antonietta dal cortile esterno,
perché nonostante le sentinelle poste davanti all’inferriata della finestra, i
prigionieri, passando e ripassando parlavano fra loro ad alta voce, a bella
posta, delle notizie del giorno, e facevano pervenire qualche frase alle
orecchie della regina. Fu così che essa seppe l’imminenza del suo processo.
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