Il testo qui sotto è tratto da un'edizione del 1954 de "Le Donne della Rivoluzione" di Jules Michelet. Purtroppo il libro non è in mio possesso per cui non so darvi note dettagliate sul volume. Non detengo nessun copyright di contenuto, né di testo.

 

LA REGINA ALLA CONCIERGERIE
Parte Prima

 

Il giorno due agosto, alle due della notte, i commissari si recarono al Tempio, e fatta svegliare la regina le diedero la lettura del decreto che ordinava la sua traslazione alla Conciergerie, in attesa di comparire davanti al Tribunale rivoluzionario.
Essa ascoltò – scrive Lamartine – la terribile notizia senza mostrare né meraviglia, né dolore: era un altro passo verso quella meta inevitabile, fatale, che desiderava prossima. La principessa Elisabetta e la figlia si gettarono invano ai piedi degli ufficiali del Municipio per supplicare che questa separazione non avvenisse: non si rispose né con un gesto, né con una parola.
 

Una pagina del libro del guardaroba della regina, sequestrato durante la sua prigionia (Archivio nazionale di Francia)

La regina rimase muta. Era quasi svestita, e fu costretta ad indossare i suoi indumenti in presenza di quegli uomini che riempivano la stanza. Costoro poi la perquisirono; le tolsero dei piccoli oggetti che rinchiusero e sigillarono in una scatola: vi era un portafogli, uno specchietto tascabile, un anello d’oro che conservava dei capelli, un foglio sul quale erano dipinti due cuori intrecciati da iniziali, un ritratto della principessa di Lamballe, la sua povera amica finita così tragicamente, due altri ritratti in miniatura di giovani dame che ricordavano a Maria Antonietta la sua giovinezza felice alla Corte austriaca con le amiche d’infanzia, un libro di preghiere e un’immagine della Madonna, che Elisabetta le aveva donato perché la portasse sempre con sé come simbolo di speranza, di invocazione e costante e fiducioso pensiero di protezione. Le lasciarono soltanto un fazzoletto, un flaconcino di essenza d’aceto, medicina contro gli svenimenti, di cui avrebbe potuto aver bisogno in quello stesso doloroso momento della separazione dai suoi che doveva essere l’ultima.
L’infelice, prima di partire, chiamò a sé, in un angolo, la figliuola e l’abbracciò e la strinse con tutto lo slancio della sua angosciata tenerezza, e singhiozzò dandole la benedizione e raccomandandole per l’avvenire l’oblio di tante amarezze, e di perdonare ai nemici, come aveva comandato Luigi XVI prima di morire.
 

Mise la mano della giovinetta in quella della zia, dicendo: «Ecco quella che d’ora in poi terrà per te il posto di padre e di padre; obbediscila sempre come fossi io stessa». Poi, rivolta alla cognata: «Voi, sorella mia, siate, ve ne prego, una nuova mamma per i miei poveri figli; li amerete sempre, ne sono certa, come li amate ora, anche nella prigione, fino alla morte».
E l’abbracciò piangendo dirottamente.
Elisabetta rispose con qualche parola detta sottovoce all’orecchio della regina, che nessuno dei presenti poté intendere. Si trattava certo di un’esortazione cristiana che la buona principessa, così profondamente religiosa, rivolgeva alla partente perché la fede, l’amor di Dio, la speranza nel futuro le dessero la forza per superare le grandi prove a cui doveva andare incontro, e perché il suo dolore fosse santificato dal Cielo. Maria Antonietta fece con la testa un segno di assenso; poi uscì dalla stanza a passi lenti, con gli occhi bassi, quasi timorosa di non poter essere abbastanza forte da superare quell’attimo, e di venir meno sulla soglia di quel carcere dove aveva tanto sofferto.
Mentre stava oltrepassando la porta stretta e bassa, in quel turbamento morale, non si ricordò di abbassare il capo, e la sua fronte batté con qualche violenza contro la trave. Le si domandò se si fosse fatta male: «Oh! No – rispose con un accento che sembrava riassumere tutta l’amarezza del suo destino – nulla ormai può farmi del male!»
Nel cortile del castello era pronta la vettura circondata dai gendarmi a cavallo, che scortarono la regina di Francia nel tragitto alla sua ultima prigione.

Questo trasferimento sollevò nella capitale molto rumore e un’impressione generale di meraviglia. Evidentemente, secondo le intenzioni del governo rivoluzionario, doveva essere un atto politico intimi dativo alle potenze nemiche, e particolarmente all’Austria, per costringerle ad iniziare trattative diplomatiche, che da qualche tempo si cercavano e si

Ritratto di Maria Antonietta nel 1793 eseguito nella prigione della Conciergerie poco prima del processo (Del Le Pier - Museo Carnevalet)

 attendevano. La regina condotta in quel carcere, che per tanti anni era l’anticamera del supplizio, doveva, secondo il pensiero dei ministri della Rivoluzione e l’opinione del Comitato di Salute Pubblica, scuotere i sovrani e renderli persuasi che l’augusto ostaggio si poteva salvare con qualche loro condiscendenza, e non irrigidendosi in una continua e ostinata opposizione, e sdegnando ogni approccio che potesse, in qualche modo, preparare la fine del grande conflitto tra la Rivoluzione e l’Europa coalizzata.
Come è noto Maria Antonietta venne abbandonata per ragioni di stato e di politica estera, e fu vittima anche degli egoismi che davano alla coalizione dei sovrani quel carattere particolare, già notato, pieno di reciproci sospetti, di tergiversazioni, di mancati aiuti, di piani di guerra improvvisamente cambiati, che ebbero per conseguenza, due anni dopo, il dissolversi di quell’unione militare e politica, la cosiddetta “Santa Crociata”, contro la Francia rivoluzionaria che uscì superba di prodigiosi successi, come in nessun’altra epoca, vincendo, in meno di due anni, ventisette battaglie e prendendo al di là dei confini numerosissime piazze forti.
La condotta dell’imperatore d’Austria, non fu veramente quale doveva aspettarsi da così stretto parente, perché la sua azione, per salvare l’infelice regina, fu piena di dubbi, temporeggiatrice e mancante del tutto di quelle premure e di quel fervore che probabilmente avrebbero condotto a qualche buon risultato. Che, da parte sua, invece Maria Antonietta molto sperasse dall’affetto di Francesco II, lo si intuisce dai documenti, da alcune lettere che vennero pubblicate, e da una frase scritta nella relazione di sua figlia quando poi stese la memoria sulla prigionia del Tempio: «Noi non potevamo immaginare l’indegno procedere dell’imperatore che lasciava la regina, sua parente, perire sul patibolo senza fare qualche pratica per salvarla. E pur questo è avvenuto!»
Scrive il Blanc a questo proposito: «Che cosa importava alla casa d’Austria la vita di Maria Antonietta? Il congresso diplomatico di Anversa non aveva deciso che gli alleati avrebbero trovato, dopo la guerra, delle larghe indennità per le spese militari e delle garanzie sicure per l’avvenire? Fu questa idea di un prossimo immancabile smembramento della Francia che fece abbandonare la regina alla sua sorte. Due parlamentari francesi, Maret, poi sotto l’Impero divenuto duca di Bassano, e Sémonville, furono dall’Austria arrestati in Italia e rinchiusi nella fortezza di Mantova, quando appunto degli abili e volenterosi approcci sarebbero stati opportuni per evitare il processo della vedova del re; arresti arbitrari per i quali si pretestò
[1] che i due francesi erano emissari Giacobini e tentavano di estendere le file delle associazioni sovversive per seminar faville di ribellione fra il popolo e turbare gli stati della Corona, come nel gennaio dello stesso anno aveva fatto Ugo Basseville che era stato assassinato a Roma.
A questa violazione dei diritti delle genti, a questo procedere mescolato di audacia e d’ipocrisia, la Convenzione, offesa, rispose il dodici agosto con la dichiarazione di Defourgues, successore di Lebrun al ministero degli affari esteri: «La casa d’Austria ha voluto infliggere un nuovo oltraggio alla Repubblica francese, e dare a tutti i popoli d’Europa un altro delitto da vendicare».

Ad ogni modo per il Governo rivoluzionario la regina era un ostaggio augusto sì, ma imbarazzante; e lo stesso Comitato di Salute pubblica non sapeva risolversi a consegnarla al carnefice, avendo sempre, lei vivente e prigioniera, un argomento di grande efficacia per le trattative con Vienna.
È ben vero che gli esagerati facevano continue pressioni e strepitavano perché seguisse rapido il processo; ma alle loro frenetiche impazienze cercavano di opporsi, finch’era possibile, temporeggiando, gli uomini di stato responsabili, che non avevano alcun interesse a spingere le cose all’estremo.
Hébert in seduta apostrofò in tal modo Cambon, con furore selvaggio e disperato: «Ho promesso ai buoni sanculotti la testa di Maria Antonietta... L’ho promessa loro a nome vostro, ed essi la vogliono assolutamente. Se non c’è questo nuovo atto di audacia e di vendetta la Rivoluzione perisce, e noi tutti periremo con lei. Voi siete obbligati a dare, ai sinceri rivoluzionari, questa nuova prova del vostro patriottismo, ora specialmente che tutti i generali tradiscono e che il tradimento ci circonda dappertutto. Il sangue di Maria Antonietta, riscalderà ancora i cuori..»
Sotto queste continue pressioni e di fronte al disinteresse e alle provocazioni dell’Austria, si ricercarono allora le prove e i pretesti per formulare l’atto d’accusa e trascinare la regina davanti al Tribunale rivoluzionario, sebbene lo stesso Fouquier Tinville non dissimulasse che l’incartamento era povero di argomenti per una condanna a morte «anche tenendo conto di quanto risultava già per l’affare Toulan, e delle relazioni intercedute fra lei e alcuni cospiratori monarchici»; ma un’orribile calunnia di Hébert e di Chaumette venne, come si vedrà, in aiuto per vincere qualche scrupolo di legalità al pubblico accusatore.


[1] Dal testo originale