Il giorno due agosto, alle due della notte, i
commissari si recarono al Tempio, e fatta svegliare la regina le diedero la
lettura del decreto che ordinava la sua traslazione alla Conciergerie, in attesa
di comparire davanti al Tribunale rivoluzionario.
Essa ascoltò – scrive Lamartine – la terribile notizia senza mostrare né
meraviglia, né dolore: era un altro passo verso quella meta inevitabile, fatale,
che desiderava prossima. La principessa Elisabetta e la figlia si gettarono
invano ai piedi degli ufficiali del Municipio per supplicare che questa
separazione non avvenisse: non si rispose né con un gesto, né con una parola.
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Una pagina del
libro del guardaroba della regina, sequestrato durante la sua
prigionia (Archivio nazionale di Francia) |
La regina rimase muta. Era quasi svestita, e
fu costretta ad indossare i suoi indumenti in presenza di quegli uomini che
riempivano la stanza. Costoro poi la perquisirono; le tolsero dei piccoli
oggetti che rinchiusero e sigillarono in una scatola: vi era un portafogli, uno
specchietto tascabile, un anello d’oro che conservava dei capelli, un foglio sul
quale erano dipinti due cuori intrecciati da iniziali, un ritratto della
principessa di Lamballe, la sua povera amica finita così tragicamente, due altri
ritratti in miniatura di giovani dame che ricordavano a Maria Antonietta la sua
giovinezza felice alla Corte austriaca con le amiche d’infanzia, un libro di
preghiere e un’immagine della Madonna, che Elisabetta le aveva donato perché la
portasse sempre con sé come simbolo di speranza, di invocazione e costante e
fiducioso pensiero di protezione. Le lasciarono soltanto un fazzoletto, un
flaconcino di essenza d’aceto, medicina contro gli svenimenti, di cui avrebbe
potuto aver bisogno in quello stesso doloroso momento della separazione dai suoi
che doveva essere l’ultima.
L’infelice, prima di partire, chiamò a sé, in un angolo, la figliuola e
l’abbracciò e la strinse con tutto lo slancio della sua angosciata tenerezza, e
singhiozzò dandole la benedizione e raccomandandole per l’avvenire l’oblio di
tante amarezze, e di perdonare ai nemici, come aveva comandato Luigi XVI prima
di morire.
Mise la mano della giovinetta in quella della
zia, dicendo: «Ecco quella che d’ora in poi terrà per te il posto di padre e di
padre; obbediscila sempre come fossi io stessa». Poi, rivolta alla cognata:
«Voi, sorella mia, siate, ve ne prego, una nuova mamma per i miei poveri figli;
li amerete sempre, ne sono certa, come li amate ora, anche nella prigione, fino
alla morte».
E l’abbracciò piangendo dirottamente.
Elisabetta rispose con qualche parola detta sottovoce all’orecchio della regina,
che nessuno dei presenti poté intendere. Si trattava certo di un’esortazione
cristiana che la buona principessa, così profondamente religiosa, rivolgeva alla
partente perché la fede, l’amor di Dio, la speranza nel futuro le dessero la
forza per superare le grandi prove a cui doveva andare incontro, e perché il suo
dolore fosse santificato dal Cielo. Maria Antonietta fece con la testa un segno
di assenso; poi uscì dalla stanza a passi lenti, con gli occhi bassi, quasi
timorosa di non poter essere abbastanza forte da superare quell’attimo, e di
venir meno sulla soglia di quel carcere dove aveva tanto sofferto.
Mentre stava oltrepassando la porta stretta e bassa, in quel turbamento morale,
non si ricordò di abbassare il capo, e la sua fronte batté con qualche violenza
contro la trave. Le si domandò se si fosse fatta male: «Oh! No – rispose con un
accento che sembrava riassumere tutta l’amarezza del suo destino – nulla ormai
può farmi del male!»
Nel cortile del castello era pronta la vettura circondata dai gendarmi a
cavallo, che scortarono la regina di Francia nel tragitto alla sua ultima
prigione.
Questo trasferimento sollevò nella capitale
molto rumore e un’impressione generale di meraviglia. Evidentemente, secondo le
intenzioni del governo rivoluzionario, doveva essere un atto politico intimi
dativo alle potenze nemiche, e particolarmente all’Austria, per costringerle ad
iniziare trattative diplomatiche, che da qualche tempo si cercavano e si
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Ritratto di Maria
Antonietta nel 1793 eseguito nella prigione della Conciergerie poco
prima del processo (Del Le Pier - Museo Carnevalet) |
attendevano. La regina condotta in quel
carcere, che per tanti anni era l’anticamera del supplizio, doveva, secondo il
pensiero dei ministri della Rivoluzione e l’opinione del Comitato di Salute
Pubblica, scuotere i sovrani e renderli persuasi che l’augusto ostaggio si
poteva salvare con qualche loro condiscendenza, e non irrigidendosi in una
continua e ostinata opposizione, e sdegnando ogni approccio che potesse, in
qualche modo, preparare la fine del grande conflitto tra la Rivoluzione e
l’Europa coalizzata.
Come è noto Maria Antonietta venne abbandonata per ragioni di stato e di
politica estera, e fu vittima anche degli egoismi che davano alla coalizione dei
sovrani quel carattere particolare, già notato, pieno di reciproci sospetti, di
tergiversazioni, di mancati aiuti, di piani di guerra improvvisamente cambiati,
che ebbero per conseguenza, due anni dopo, il dissolversi di quell’unione
militare e politica, la cosiddetta “Santa Crociata”, contro la Francia
rivoluzionaria che uscì superba di prodigiosi successi, come in nessun’altra
epoca, vincendo, in meno di due anni, ventisette battaglie e prendendo al di là
dei confini numerosissime piazze forti.
La condotta dell’imperatore d’Austria, non fu veramente quale doveva aspettarsi
da così stretto parente, perché la sua azione, per salvare l’infelice regina, fu
piena di dubbi, temporeggiatrice e mancante del tutto di quelle premure e di
quel fervore che probabilmente avrebbero condotto a qualche buon risultato. Che,
da parte sua, invece Maria Antonietta molto sperasse dall’affetto di Francesco
II, lo si intuisce dai documenti, da alcune lettere che vennero pubblicate, e da
una frase scritta nella relazione di sua figlia quando poi stese la memoria
sulla prigionia del Tempio: «Noi non potevamo immaginare l’indegno procedere
dell’imperatore che lasciava la regina, sua parente, perire sul patibolo senza
fare qualche pratica per salvarla. E pur questo è avvenuto!»
Scrive il Blanc a questo proposito: «Che cosa importava alla casa d’Austria la
vita di Maria Antonietta? Il congresso diplomatico di Anversa non aveva deciso
che gli alleati avrebbero trovato, dopo la guerra, delle larghe indennità per le
spese militari e delle garanzie sicure per l’avvenire? Fu questa idea di un
prossimo immancabile smembramento della Francia che fece abbandonare la regina
alla sua sorte. Due parlamentari francesi, Maret, poi sotto l’Impero divenuto
duca di Bassano, e Sémonville, furono dall’Austria arrestati in Italia e
rinchiusi nella fortezza di Mantova, quando appunto degli abili e volenterosi
approcci sarebbero stati opportuni per evitare il processo della vedova del re;
arresti arbitrari per i quali si pretestò
che i due francesi erano emissari Giacobini e tentavano di estendere le file
delle associazioni sovversive per seminar faville di ribellione fra il popolo e
turbare gli stati della Corona, come nel gennaio dello stesso anno aveva fatto
Ugo Basseville che era stato assassinato a Roma.
A questa violazione dei diritti delle genti, a questo procedere mescolato di
audacia e d’ipocrisia, la Convenzione, offesa, rispose il dodici agosto con la
dichiarazione di Defourgues, successore di Lebrun al ministero degli affari
esteri: «La casa d’Austria ha voluto infliggere un nuovo oltraggio alla
Repubblica francese, e dare a tutti i popoli d’Europa un altro delitto da
vendicare».
Ad ogni modo per il Governo rivoluzionario la regina era un ostaggio augusto sì,
ma imbarazzante; e lo stesso Comitato di Salute pubblica non sapeva risolversi a
consegnarla al carnefice, avendo sempre, lei vivente e prigioniera, un argomento
di grande efficacia per le trattative con Vienna.
È ben vero che gli esagerati facevano continue pressioni e strepitavano perché
seguisse rapido il processo; ma alle loro frenetiche impazienze cercavano di
opporsi, finch’era possibile, temporeggiando, gli uomini di stato responsabili,
che non avevano alcun interesse a spingere le cose all’estremo.
Hébert in seduta apostrofò in tal modo Cambon, con furore selvaggio e disperato:
«Ho promesso ai buoni sanculotti la testa di Maria Antonietta... L’ho promessa
loro a nome vostro, ed essi la vogliono assolutamente. Se non c’è questo nuovo
atto di audacia e di vendetta la Rivoluzione perisce, e noi tutti periremo con
lei. Voi siete obbligati a dare, ai sinceri rivoluzionari, questa nuova prova
del vostro patriottismo, ora specialmente che tutti i generali tradiscono e che
il tradimento ci circonda dappertutto. Il sangue di Maria Antonietta, riscalderà
ancora i cuori..»
Sotto queste continue pressioni e di fronte al disinteresse e alle provocazioni
dell’Austria, si ricercarono allora le prove e i pretesti per formulare l’atto
d’accusa e trascinare la regina davanti al Tribunale rivoluzionario, sebbene lo
stesso Fouquier Tinville non dissimulasse che l’incartamento era povero di
argomenti per una condanna a morte «anche tenendo conto di quanto risultava già
per l’affare Toulan, e delle relazioni intercedute fra lei e alcuni cospiratori
monarchici»; ma un’orribile calunnia di Hébert e di Chaumette venne, come si
vedrà, in aiuto per vincere qualche scrupolo di legalità al pubblico accusatore.
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