Il testo qui sotto è tratto da un'edizione del 1954 de "Le Donne della Rivoluzione" di Jules Michelet. Purtroppo il libro non è in mio possesso per cui non so darvi note dettagliate sul volume. Non detengo nessun copyright di contenuto, né di testo.
LA CONDANNA A MORTE DEL RE |
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[…] Molti Girondini, che erano allora la maggioranza della Convenzione, desideravano di salvare Luigi XVI, ma temevano che questa loro clemenza attirasse, sul loro partito, accuse di realismo che i Montagnardi, già con tanta animosità, andavano gridando, quale servi della monarchia e nemici della Repubblica. Perciò, in tutto lo svolgersi di questo alto processo, il loro atteggiamento fu spesso strano, equivoco, anguillesco e, mancando di direttive, anche contraddittorio fra gli stessi oratori di loro parte: pochi ebbero la franchezza di pronunciarsi a favore del sovrano accusato; e anche questa loro incerta e trepida moderazione lì perdette, senza giovare all’infelice Luigi. Eppure, in quel momento, la causa del re investiva indirettamente anche la causa loro, perché si trattava di risolvere, con un atto di stretta giustizia, o con un colpo di stato omicida, che sopprimeva un uomo non più rivestito della regia autorità, il prolungarsi di un eccezionale e torbido regime rivoluzionario. Il futuro trionfo dei Girondini o dei Montagnardi era, per gli uni e per gli altri, nella prima o nella seconda di queste soluzioni; e quando cadde miseramente la proposta di Salles, con l’ultimo e ambiguo tentativo di sottrarre il re alla morte deferendo al popolo l’appello sulla sentenza della Convenzione, non restò alla Girando che un misero pretesto per dilazionare di qualche giorno l’esecuzione della condanna, e per le parole vane e piene di umana pietà, del più grande oratore del loro partito, il presidente Vergniaud, che pur anch’egli aveva votato per la morte: «Cittadini, ecco i risultati dello scrutinio. Dopo che la giustizia ha emesso il suo verdetto, è l’umanità che deve parlare». LE SPETTATRICI E GLI SPETTATORI
L’Aula della Convenzione, durante
l’appello nominale dei deputati, fu teatro, in quella cupa e
notturna seduta, di una di quelle scene storiche che lasciano negli
spettatori profonde impressioni, ed hanno qualche cosa di
fantastico. Nelle adiacenze dell’assemblea giudicante, in quella
notte invernale, rare lampade facevano brillare le armi delle truppe
di guardia, e mal rischiaravano il brulichio, fra le ombre, di una
moltitudine agitata dalla passione politica: visi contratti, gesti
atroci, un rauco vociare, una minaccia diffusa che pesava sugli
animi e che esplodeva, di tratto in tratto, in grida più alte ed in
minacce contro qualche deputato ostile ai rivoluzionari. […] Come
nelle rappresentazioni – scrive il Lamartine – si vedevano, in prima
fila, nelle tribune riservate, delle eleganti, belle e giovani
donne, adorne di nastri tricolori, allegre, noncuranti e
chiacchierine, come si trovassero ad uno spettacolo dell’Opera o del
Teatro degli Italiani. Esse scambiavano dei cenni d’intesa, dei
sorrisi procaci, e riprendevano un atteggiamento di attesa curiosa
ed impaziente per notare i sì e i no, puntando degli
spilli sui fogli, ogni qualvolta uno di quei fatali monosillabi, che
dovevano decidere della vita del re, era gettato dalla tribuna dove
ogni deputato si recava per dare il suo voto. I valletti della sala
a stento circolavano fra i gradini delle tribune, e portavano vassoi
con acque d’arancio, sorbetti e dolci per le irrequiete spettatrici.
Dall’alto delle tribune, quelle non riservate, si affacciava un
pubblico diverso: erano persone del popolo e fanatici partigiani dei
giacobini e dei cordiglieri, con gli occhi e gli animi tutti tesi
verso il rappresentante che doveva pronunciare il verdetto;
battimani, grida di bravo, o invettive e mormorii, seguivano il
votante fin sul suo banco, a seconda che era stato favorevole o
contrario alla sentenza di morte. […] I primi voti lasciarono
perplessi e dubbiosi gli animi: la morte e il bando si bilanciavano
numericamente, e la sorte di Luigi XVI sarebbe stata decisa dalle
labbra di uno dei capi della Gironda. Si attendeva con ansia il
primo voto di un uomo eminente del partito; e quando l’usciere fece
il nome di Vergniaud, ogni rumore cessò, tutti gli sguardi si
fissarono sull’eloquente deputato di Limoges. Egli, il giorno prima,
conversando in casa di una signora, aveva espresso senso di
commiserazione per il prigioniero del Tempio, giurando che, a costo
anche della vita, voleva salvarlo.
Quando fu chiamato a votare il
cugino del re, Filippo d’Orléans, divenuto Filippo-Égalité, lo si
vide alzarsi e, con viso impassibile e passo fermo, salire la
tribuna, fra la vivissima curiosità e la sorpresa di tutti. L’ex
principe, senza mostrare il più lieve segno d’emozione, dichiarò:
«Preoccupato del mio dovere, e convinto che tutti coloro che, nel
futuro, attenteranno alla sovranità del popolo meritano la morte, io
voto per la morte!». E discese impassibile a rioccupare il suo
posto, accompagnato da un sussurro sordo di meraviglia, che si
propagò anche fra i deputati della Montagna.
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